martedì 27 marzo 2012

Ritenta, sarai più fortunato...

Io rappresento il fallimento di ogni studio di marketing: tutte quelle menate sull'attirare l'attenzione, sui colori, sulle disposizioni fighe con me non funzionano; persino la psicologia inversa risulta fallimentare. Se è no, è no. E non c'è verso di farmi bramare qualcosa.
Non sono il tipo di persona a caccia di novità, anzi, appartengo decisamente a quella categoria di persone che mal si abituano alle novità, anche quando possono apportare un effettivo miglioramento alla mia vita, anche quando io stessa mi impongo determinati cambiamenti.

Partiamo dal principio e andiamo con ordine: mia madre avrebbe dovuto capire subito che il mio modus operandi sarebbe stato questo vita natural durante.

Era il 16 marzo del 1984 quando, dopo cena, ma diciamo anche in seconda serata inoltrata (erano le 23:30, altro segno peculiare, sono una nottambula), mia madre avverte che "il momento" era arrivato.
La puerpera viene portata all'ospedale, per la primigenia si opta ovviamente per il parto naturale...
Io sembravo anche piuttosto d'accordo, quando, all'improvviso mi rendo conto che forse non avrei ottenuto enormi e tangibili miglioramenti una volta uscita da là.
Dopo una nottata di doglie... Basta, ci ripenso, non voglio uscire!
Mi rigiro e al grido di "O vagina o morte" tento di suicidarmi. Il ginecologo non era d'accordo, mia madre nemmeno, optano per il cesareo.
Da quel 17 marzo in poi (perché io oltre ad essere una di quelle poco avvezze ai cambiamenti e una nottambula, sono anche una testarda che segue i suoi tempi) è stata una dura lotta verso il mantenimento del mio status (quale fosse poi, non si sa).
Passo l'infanzia evitando il più possibile i contatti ravvicinati con alcuni tipi di parenti adducendo scuse come "non posso darti un bacino, li ho finiti" oppure mangiando solo pastina in bianco (salvo poi spazzolarmi intere frittate di funghi o piatti di triglie fritte). Le sottilette dovevano essere solo Kraft, i formaggini solo Mio, il Philadelphia solo quello originale. Pena: lo sciopero della fame.

Settembre 1989. Dopo aver trascorso gli anni dedicati alla scuola primaria in quel di Gioia Tauro, ridente paesino della costa calabra, la famigliola decide di tornare in Sicilia. Urge la scelta della scuola elementare. Pongo un unico veto: le suore devono essere vestite di marrone come la mia maestra dell'asilo.
Certo perché abituarmi a delle suore vestite di nero, di blu o di grigio sarebbe stato davvero troppo. Non solo mi fai trasferire, devo anche sopportare un cambiamento cromatico. Sì, davvero troppo.
[per dovere di cronaca mi preme dirvi che le suore erano vestite di nero e che dopo due anni ho dovuto cambiare nuovamente scuola...] 

Estate 1993. Dopo aver deciso, durante l'inverno, che era davvero ora di smetterla di nuotare coi braccioli (che poi erano come la famosa piuma di Dumbo, si sgonfiavano mentre mi trovavo in acqua, quindi in pratica nuotavo anche senza) e di iscrivermi in piscina. Dopo aver preso due brevetti e rifiutato l'invito degli allenatori con un "sono venuta qui solo per imparare a nuotare, non voglio fare gare". Dopo tutto questo, decreto che è il momento adatto per comprare degli occhialini da nuoto, per permettermi così di poter godere appieno delle bellezze del mare. Tronfia come un tacchino li indosso e mi tuffo, guardo sott'acqua. È troppo quello che sto vedendo! Davvero troppo! Esco dall'acqua e li tolgo, sconfitta dalla mia incapacità di adattamento.
[sempre per dovere di cronaca mi sono incaponita e imposta di abituarmi poco a poco... ovviamente ho vinto io]

19 marzo 1997. Avendo trascorso la fine dell'infanzia e preadolescenza come "una dei maschi" e avendo osservato cadere le mie compagne di classe, una dopo l'altra, sotto il giogo dell'arrivo del ciclo mestruale, sapevo che prima o poi sarebbe successo anche a me e che la cosa non mi avrebbe resa felice perché mi avrebbe potuto togliere il blasone "una dei maschi"; quella sera, quella maledetta sera, all'alba dei miei 13 anni, la mia vita come l'avevo conosciuta fino a quel momento ha subìto un cambiamento di quelli repentini e incontrollabili. Almeno 3 giorni al mese posso smetterla di essere "una dei maschi" e far parte, mio malgrado, della categoria delle "femmine" (non donne, proprio femmine). Ancora oggi, dopo 15 anni, non riesco ad accettare né la crescita di peluria né questo fio (de na mignotta) da pagare, mensilmente.

Primavera 2001. Da qualche anno a questa parte ho l'abitudine di soffrire della sindrome meglio conosciuta come "armadio di Paperino". Vuoi perché il 99% dei miei vestiti è di colore nero, vuoi per pigrizia, vuoi per scarsa propensione alla tipicamente femminile voglia di abbinare fogge e colori, di solito se mi trovo bene con un determinato capo di vestiario tendo a comprare sempre quello (nel senso che vado nel negozio e chiedo quel modello di jeans, quel colore, quella taglia e nemmeno lo provo, tanto per ristabilire un ordine nel cosmo dove le femmine perdono tempo provando qualsiasi cosa trovino nei negozi, comprese le targhette degli estintori). Ebbene, al liceo avevo questo paio di jeans, i quali dopo un po' iniziano a sgualcirsi nell'interno coscia e nell'orlo inferiore (calpestati dagli anfibi - se ve lo state chiedendo: no, non li volevo accorciare). Comprare altri jeans? NO! Piuttosto vado in giro mostrando centimetri di pelle! Quando il buco si è fatto davvero troppo grande allora ho preso le tasche posteriori e le ho usate come toppe. Intanto si erano create piccole fratture nel tessuto, all'altezza del ginocchio. Allarga oggi, allarga domani, un pomeriggio mi chino per togliere la catena al motorino e STRAAAAAAAAAAAAAP, uno squarcio da metà coscia a metà stinco. Una, due, tre, mille spille da balia finché non sono andata a comprarne un nuovo paio.

Per oggi mi fermo qui con le mirabolanti avventure della vostra sociopatica, misogina e misantropa preferita. È ora di cucinare *rullo di topinambur*.

Caprese al cioccolato bianco
Ingredienti:
- 200 grammi di cioccolato bianco
- 200 grammi di mandorle
- 200 grammi di zucchero
- 5 uova
- 1 bustina di lievito
- 150 grammi di burro
- scorza di 3 limoni
- succo di un limone
- 1 bicchierino di limoncello o crema di limoncello

Nel mixer frullate le mandorle, il cioccolato bianco e lo zucchero (a meno che non vogliate usare la farina di mandorle, e io ve la consiglio perché così evitate che le mandorle producano olio, in tal caso usate zucchero a velo al posto dello zucchero normale, in maniera tale da assorbirlo).

Accendete il forno a 180° gradi.
Rompete le uova e unitevi il lievito e il burro (non è necessario fondere il burro, il movimento delle fruste farà il suo effetto).
Adesso tocca alle mandorle e al cioccolato, alla scorza dei limoni, al succo e al bicchiere di liquore. 

Versate il composto in uno stampo foderato di carta forno e infornate per 50 minuti, non preoccupatevi se diventa piuttosto scura, è normale.

Dopo averla sfornata, aspettate che si raffreddi per bene prima di sformarla, è piuttosto delicata. Cospargetela di zucchero a velo e servite.

Piccolo accorgimento: provate a 160° per 40 minuti, magari il fondo non si cuoce al limite col risultare bruciacchiato.


martedì 20 marzo 2012

Acqua e limone...

ovvero: le commistioni eccezionali che danno luogo a risultati inaspettati.

Onde evitare di diventare quella delle "storie di vita vissuta", eviterò questo incipit (nonostante fossi davvero davvero davvero tentata dall'usarlo), però così è - non se vi pare.
Ignoriamo per un attimo la mia ipocondria e il piacere che posso provare nel pensare di avere milioni di malanni, il risultato è che soffro di tre malattie: cistite, herpes al labbro e candida - la cistite fa capolino anche se per caso mangio in maniera sregolata o se non bevo a sufficienza; se mi innervosisco posso iniziare a usare una filastrocca per decretare quale delle tre si paleserà.
Ieri sera, durante una festa - quindi non ero a casa mia, da un momento all'altro sento una fitta familiare. Corro in bagno e dico ciao alla cistite. Mi faccio i complimenti da sola, dopo una rapida analisi effettuata sulla base dei pasti da venerdì sera a quel momento, e non posso che affermare "povera stolta, te la sei meritata".
Inizio a bere acqua e fare la spola dalla festa al bagno, dal bagno alla festa. Una volta l'ho anche trovato occupato e ho pensato che fosse la me di prima a occuparlo.
Finisce la festa e torno a casa, un tragitto di pochi minuti che però mi ha fatta sentire nella pubblicità dei pannoloni per signora (sì, proprio quella in cui si dice che dai 30 anni in poi noi donne rischiamo di farcela addosso nemmeno avessimo la resistenza di una neonata di 1 anno). Dopo aver parcheggiato l'auto inizia la procedura di ottimizzazione del tempo: mentre cammino verso il portone tolgo i bracciali e la collana, li lancio in borsa; prendo le chiavi di casa e quelle della macchina fanno compagnia ai bracciali. Entro, tolgo le scarpe, con gesti felini mi libero del cappotto e della giacca e finalmente, nemmeno non andassi in bagno da 12 ore mi accingo a passare i successivi 45 minuti nella posizione del dipinto di Füssli, Das Schweigen.
Oggi sono qui che bevo acqua e limone. Lo so, state torcendo le vostre labbra al pensiero, vi dirò: non è poi così male come bevanda e poi è un toccasana contro la cistite. Sì, ok, se già mi vengono gli attacchi di cistite in stile "piscio lamette" (ringraziamo Chiara per la definizione più che calzante), perché - direte voi - farsi del male con qualcosa di acido? Ed è lì che sta il bello: l'acido del limone disinfetta i reni. Quindi è così che va oggi, evito sale, zucchero, the, caffè, cioccolata, evito la vita ma bevo acqua e limone. Una dicotomia da non sottovalutare.
Dicotomia.
Quando ai colloqui mi chiedono come mi definisco, io uso l'aggettivo "dicotomico". Una volta una mi disse "ah una maniera carina per dire che sei bipolare". Mmmh, vabbè, mi va benissimo bipolare nonostante l'accezione negativa.
Ed effettivamente è così che sono, appartengo al genere femminile ma mi rivolgo alle altre come "le femmine", sono misogina e possiedo una mente maschile, il che mi giustifica l'uso de "le femmine". Vengo definita anaffettiva, fredda, una stronza da manuale ma anche capace di dare l'idea di una che ha passioni brucianti - che poi si spengono perché è la legna che viene a mancare.

Dalla commistione della mia "calcolatrice e fatta a scompartimenti stagni" mente maschile e delle passioni brucianti oggi parlerò di una questione che mi sta molto a cuore, forse la summa dei problemi di incomunicabilità presenti tra i due sessi: la trombamicizia.

La prima cosa che mi sento di affermare con certezza è che uno dei due non sa mai come gestire la cosa ed è per quello finisce male - per la cronaca, nella maggioranza dei casi sono le vaginomunite. Queste ultime, usano lo stratagemma dell'emancipazione, si celano dietro al paravento del "sticazzi scopiamo senza problemi non sono come le altre" per irretire il maschio - già traumatizzato da precedenti relazioni, quindi impaurito come se avesse davanti il mastino di Baskerville - nella speranza che poi, una volta assaggiata la loro inimitabile e unica vagina, tac, il maschio decida di legarsi vita natural durante.
No, non funziona così, non ce l'hanno solo loro.
 "Non sono come le altre", dichiara la femmina uguale a tutte le altre - la quale poi si rivela per quel che è: una alla ricerca di relazioni lunghe e stabili, anelli di fidanzamento e tutto ciò che ne deriva.

Quando invece è il maschio a non saperla gestire invece i casi sono due: ha talmente paura di soffrire che mette in atto l'arcano potere del mettere le mani avanti, ché non si sa mai, magari si affeziona; oppure si trova una che rientra nella categoria da me rappresentata, di quelle che tengono le cose separate: una cosa è l'amore, l'altra il sesso. Una cosa è l'amicizia, o l'amore, l'altra la trombamicizia. Quelle che vanno a compartimenti stagni, le anaffettive, le distaccate, quelle "incapaci di grossi sentimenti". Riflettendoci bene è un bene per il mondo che non ne esistano così tante a piede libero perché, data la mia esperienza personale, l'uomo che fa tanto il figo, il duro, quello che "si scopa e basta", quando incontra la donna che sul serio separa le cose, "perchè cazzo non reagisce al fatto che abbiamo scopato? Com'è che non si lascia prendere? Cioè le donne non si comportano così.", non regge, non ce la fa, è visibilmente stroncato, si rivolta da solo come un calzino (anche se sembra che siamo state noi).
Sì miei cari maschietti, siete dei fessi ed è facile scavare nella vostra dolce e debole anima. Basta non offrirvi il solito buffet di "io e te per sempre insieme, adesso che l'abbiamo fatto vuol dire che siamo fidanzati" e scombinarvi le slides del vostro powerpoint che davvero non riuscite a fare altro che balbettare.
Famosa è la mia affermazione "ma com'è possibile che uno dà al maschio quello che vuole, una trombamica, e quello poi dà di matto".

Tutta questa manfrina per dire che non sempre vediamo le cose per come in realtà sono (Anaïs Nin direbbe che non vediamo le cose per come sono, bensì per come siamo), che ci lasciamo andare alle elucubrazioni o ai pregiudizi e che questo nostra iper-immaginazione crea delle persone fatte e finite dove in realtà non ci sono persone (qui ci viene in aiuto il nostro caro Fernando Pessoa, quando dichiara che Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l'idea che ci facciamo di qualcuno.).
La forma ideale, quindi migliore, è sempre quella: una persona che ti sappia prendere contemporaneamente cervello e corpo. Ma ci imputtaniamo tutti, prima o poi, più o meno.

Ma andiamo oltre, è tempo di cucinare. La ricetta di oggi l'ho sperimentata anni fa per la prima volta ma gli astanti erano tutti influenzati, però era il 24 dicembre e avevo voglia di cucinare, tiè.

Involtini alla siciliana
Ingredienti:
-8 fettine di carne (meglio vitello)
-2 carciofi
-50 grammi di prosciutto crudo (o speck)
- 1 panetto di Philadelphia
-1/2 bicchiere di vino bianco
-1 cipolla
-80 grammi di burro
-1 limone spremuto
-1/2 bicchiere di brodo
-2 cucchiai di farina bianca
-sale e pepe

Pulite i carciofi fino ad avere solo i torsoli, tagliateli 4 e scottateli in acqua salata e acidulata col succo di limone per 5 minuti. Scolateli e lasciateli asciugare su un canovaccio.
Tritate il prosciutto assieme a un cucchiaio di burro e al formaggio, aggiungete sale e pepe; stendete le fettine di carne e spalmate il composto, adagiate quindi due spicchi di carciofo e arrotolate. 

In un tegame sciogliete il resto del burro e fatevi rosolare la cipolla, infarinate gli involtini e metteteli sul fuoco; fateli rosolare per 15 minuti circa, quindi unite il vino e il brodo, abbassate la fiamma e fate restringere il sugo.






martedì 13 marzo 2012

Rigurgito...

Storie di vita vissuta, capitolo 949724364.
Mi sto sheldonizzando sempre più du du du da da da.

Mi trovavo nella sala d'aspetto del dentista (no, il dentista non mi crea problemi) e tutto ad un tratto, mentre stavo rileggendo - sfogliando - per la decima volta le solite riviste patinate che tanto piacciono alle femmine, entra Lei, questa strana creatura, questo inquietante essere che per comodità chiameremo "LCSS" (logorroica con le sacre scritture).

La LCSS è una spumeggiante femmina sulla cinquantina che irrompe in sala d'aspetto coi suoi finti Ugg grigio topo tempestati di finti swarionski, abbinati a collant color lampone e a un vestito, anch'esso grigio topo, corredato di maniche lampone sbiadito.
Inizialmente spero appartenga alla mia categoria di gente da sala da aspetto: arriva, saluta e sta zitta, tentando di farsi i fatti propri nel maggiore silenzio possibile. E invece - inorridisco, atterrita - no!

"Scappo in bagno a fare pipì perché non ce la faccio proprio più!"

Tento di mantenere un'espressione neutrale, ma dentro di me ho già assunto una posa da triglia che reca con sé un cartello a led luminosi che recita - E 'sti cazzi?
Spero, ovviamente, che i contatti con la LCSS si ridurranno a questo. E invece - nuovamente, attonita - no!

Tira fuori dalla borsa l'agendina e la penna, a scatto... tic tic tic tic tic... non si ferma. Tic tic tic tic tic, ti prego lascia stare quella penna, non si merita una tortura simile, prendi me ma ti prego, lascia stare la penna!

Sono già sufficientemente indispettita, guardo il cellulare. Diamine, mai che qualcuno mi mandi un messaggio o mi telefoni in momenti come questo. A un certo punto sento sprigionarsi lo sheldon dentro di me: inizia a fischiettare... Ero già lì pronta a mostrare la clausola del contratto tra coinquilini che impedisce di fischiettare quando mi ritorna in mente che non siamo coinquiline e che non c'è nessun contratto da rispettare (per la cronaca, dopo questi giorni di tempesta, non puoi, proprio non puoi scegliere Samvueh Ove de Reinbou).

Fischietta.
Ticchetta.
Ti prego, basta, risparmiami, dentista chiamami o quantomeno falla passare per prima, ma liberami da ogni male, amen.

Guarda l'agendina, fischietta, ticchetta e inizia a sussurrare cose... Mercoledì, mercoledì...
Samara, che cosa dobbiamo fare mercoledì?
Voglio alzarmi dalla sedia e rigurgitarle la merenda, che non ho fatto, dannazione!

Finalmente il dentista mi chiama, è il mio turno. Maledetta! Ed è lì che mi accorgo che il libro che portava con sé altri non era che le Sacre Scritture (e allora dillo che sei fuori di testa, dillo!).
Eppure quel tic tic tic tic tic mi ha accompagnata per giorni.

Tic tic tic tic tic.
A proposito di ticchettii, parliamo dell'orologio biologico, tic tic tic tic tic, come il tic tic tic della penna, mi corre incontro. Come un tir - bam.
Come capita sempre in presenza di neonati, mi ritrovo a fare simpatia all'infante di turno; cerco di resistere però, ci provo, giuro. Diamine se sono brava coi bambini. Inizio a conversare con l'essere umano in miniatura, ci gioco - ehi, è quasi piacevole, chissà, un giorno, quasi quasi. Poi, quando quel bambino mi rigurgita addosso, strabuzzo gli occhi, disgustata come una piccola me costretta a mangiare broccoli e fegato - e lì, proprio lì, proprio in quel momento, hic et nunc, ricordo perché preferisco i gatti. Restituisco il pupo alla genitrice, il mio lavoro è stato svolto, anche per questa volta ho fregato l'orologio biologico.
Risata malefica.
Dissolvenza.

Oreo Cheesecake

Ingredienti:
per la base:
- 1 cup 1/2 di Mc Vities (192 grammi)
- 1/4 cup di zucchero di canna (55 grammi)
- 7 tablespoon di burro (105 grammi)

per la crema:
-2 cup 1/4 di panna (288 grammi)
- 1 pound di Philadelphia (453 grammi)
- 2/3 cup di zucchero (134 grammi)
- 1/2 teaspoon di sale (2 grammi)
- 3/4 cup di Oreo (150 grammi)
- 1 bustina di vanillina

Passate al mixer i Mc Vities, uniteli in una ciotola allo zucchero di canna e al burro fuso (burro messo nel bicchiere e fuso in microonde). Mescolate bene, il burro e lo zucchero tendono a fare i furbetti, mescolate con attenzione.
Mettete il composto in una tortiera dai 23 cm di diametro e pressate, aiutatevi con il bicchiere nel quale avete fuso il burro (oppure con un batticarne).
Montate la panna, aggiungete il Philadelphia, lo zucchero, la vanillina e dategli un vigoroso colpo di sbattitore per evitare  i grumi di formaggio.
Passate al mixer gli Oreo e uniteli al composto (ormai) cremoso.
Spalmate la crema sulla base di biscotti, decorate come più vi piace (io ad esempio avrei preferito usare dei Mini-Oreo, ma non li ho trovati. Allora ho optato per sbuffi di panna e ulteriori Oreo tritati).

Ps: questa torta la dedico al mio patatone vicentinpugliese che ha finito gli esami, cuori.

giovedì 8 marzo 2012

Gattolicesimo

... ovvero: miagolando sotto la pioggia...

Original Soundtrack: All the Crazy Cat Ladies (Put A Cat On It)
Ultimamente mi capita di rendermi conto di colpo di trovarmi preda di attacchi di tachicardia, attacchi improvvisi; uno degli ultimi mi è venuto un paio di settimane fa mentre mi trovavo in fila alla posta. Certo, c'è da dire che lo stazionare in un luogo pubblico dove c'è gente che ti sbircia tra le dita per vedere quale sia il tuo numeretto per poi mettersi a dirigere il traffico dell'utenza non aiuta.
Suppongo sia evidente che per avere questi micro attacchi di panico il problema non possa essere costituito solo dalla folla alla posta. Sabato sera però ho trovato un rimedio infallibile, un antidepressivo naturale: un gatto, su di me, che fa le fusa. Che fa le fusa su di me come se io fossi l'unica persona al mondo capace di fargli fare le fusa.
Questi (più o meno) pelosi esserini tanto tanto stronzi mi rendono tanto tanto felice, soprattutto quando scelgono di farsi fare le coccole da me in una stanza piena di gente. Non vi dico la gioia quando ha iniziato a farmi i massaggini, un brodo di giuggiole che non finiva più. 

Se non l'avessi ancora palesato, sono un'amante dei gatti - non in senso biblico, ça va sans dire.

Avete presente quelle femmine che vedono un neonato, un bambino e non capiscono più niente? Ecco, io divento così coi gatti, una demente, una rincitrullita, una melliflua; il diabete scorre nelle vene del cervello e me le ostruisce. Sono una di quelle che finirà a vivere senza alcun umano ma in compagnia di quattro gatti.
Nella prossima vita voglio rinascere gatta. Almeno potrei comportarmi come faccio sempre e nessuno avrebbe nulla da biasimare. Pensateci un po' su: un cane si comporta male e subito tutti a dirne su un paio al padrone; i gatti fanno quello che vogliono e nessuno dice mai niente, anzi "beh è un gatto, è normale che faccia così".
La rete è piena di riferimenti a gatti contro cani, cosa pensa il cane, cosa pensa il gatto. Per il cane noi padroni siamo dio in terra, per il gatto nelle migliori delle ipotesi siamo i suoi cucciolini da educare (i famosi topi/uccellini che scambiamo per doni in realtà devono essere letti come "ehi guarda, impara a cacciare piccolo mio", oppure come una palese dimostrazione di potenza - se voglio t'ammazzo e in maniera atroce). Forse siamo solo il loro parco giochi unito all'apriscatole.
Immaginatemi, io in adorazione di un gatto, il quale mi comunica in maniera cristallina che in realtà non gliene frega niente di chi lo stia idolatrando perché lui desidera solo del sangue. Mio o di un altro non importa, deve essere sangue.
Diciamo una frase forte, ammettiamo a chiare lettere che chi non ama i gatti e il loro modus vivendi non ama nemmeno le donne per quello che sono, le sopporta, le tollera. Non le ama.
Il gatto fa quel che vuole. Si trova in mezzo a essere umani che gli creano idiosincrasia? Decide di andarsi a nascondere (anche io faccio così).
Ha voglia di risistemare la propria autostima? Decide quando puoi fargli le coccole e quando non gli va più, se sei fortunato si alza e va via, se non sei fortunato ti lancia un'unghiata (come le donne).
Se non piaci al gatto, lui ti soffierà. Allo stesso modo se un ragazzo che ci prova non ti piace, applicherai la tecnica nella misura umana.
Lezione fondamentale da imparare: sa come arruffianarsi le attenzioni. Donne è arrivato l'arrotino!
Puoi chiedere al gatto di amarti, puoi mostrarti spalmato a terra pronto per ogni tipo di vessazione; se il gatto non è interessato non è interessato. Al contrario, se gli scateni subito un interesse, se sente di potersi fidare, è subito tuo (qualcuno sussurra dalla fila di dietro: come le donne).
Può essere il gatto più stronzo e vendicativo del mondo, uno di quelli che ti sopporta talmente poco che più che ignorarti, ti attacca le caviglie appena può. Però se lo trovi nel momento giusto, quando ha paura di qualcosa, si lascia addirittura aiutare e prendere in braccio (salvo poi saltare via come un ingrato e tornare alle vecchie abitudini non appena si riprende).
Chi prende un cane, come Tereza nel libro di Kundera, è qualcuno che ha bisogno di essere rassicurato da una presenza costante, da una presenza che ha bisogno che qualcuno si prenda cura di lui; qualsiasi cosa tu faccia fare al cane, ne è entusiasta. Così è troppo facile. Chi non sa gestire il gatto è perché conosce solo la prossemica del canide. Sono invertite, fatevene una ragione.
Esperienza personale: cagnolino che doveva indossare il guinzaglio e che ovviamente non voleva. Vedeva avvicinare il padrone e, avendo intuito la solfa, si allontanava. Arrivo io, donna gatto, che lo attira con la scusa delle coccole e quando arriva a fidarsi - ZAC - guinzaglio messo.
Chi si aspetta l'eterno entusiasmo da un animale da compagnia non può reggere un gatto che miagola perché vuole entrare, poi vuole uscire, che vuole i grattini, che poi non li vuole, che ti vuole bene però ci deve pensare bene. 
Non che non mi piacciano i cani, ma con loro è troppo facile: li chiami, vengono. Vuoi giocare? Anche loro vogliono. Un po' come avere un corteggiatore che fa tutto ciò che gli chiedi, niente suspance.
Ammettiamolo, è insito nella natura femminile, aneliamo la fedeltà di un cane ma in realtà preferiamo l'incostanza del gatto.

Come mi capita spesso (sempre), mentre vado in giro per la rete, vengo colpita da questa o da quella immagine, tanto per avere un contributo fotografico dalla regia (cit.) per avallare i miei deliri.


Colgo l'occasione per affermare quanto trovi la teoria illustrata dall'immagine piuttosto errata. Non mi è mai successo di preoccuparmi più di tanto per un uomo che dimostri la sua indipendenza dalla mia persona; sarà perché io stessa mi reputo una gatta (da ripetere ad libitum). 

Ma passiamo piuttosto alla ricetta della settimana, sennò che cosa ci sto a fare?
Non ha un nome, non ho voglia di inventare un nome. Cucinatevela, mangiatevela.

Ingredienti:
- 250 grammi di farro
- pesto q.b.
- 140 grammi di tonno
- 3 carote
- 2 zucchine
- 4 uova

Lavate il farro, mettetelo in pentola in acqua fredda e salata. Quando inizierà a bollire puntate il timer su 35-40 minuti di cottura. Intanto tagliate a julienne carote e zucchine, aggiungete le uova, salate e aggiungete, se viva, pepe, erbe aromatiche (prezzemolo, erba cipollina) o spezie (paprika, curry, zenzero). Versate il composto in una teglia di 26cm di diametro foderata di carta forno e infornate per 30 minuti a 200° (se non doveste essere fanatici delle verdure croccanti allora fatele prima saltare un po' in padella, ma io non lo farei se fossi in voi). Quando la sfornate, lasciatela intiepidire, poi tagliatela a quadrettoni.
Scolate il farro, aggiungete il tonno (eliminate più olio possibile dalla scatoletta) e il pesto, rimestate per bene. Quanto servite spruzzate pure della granella di pistacchio (ma se avete il pesto di pistacchio è ancora meglio).