martedì 27 marzo 2012

Ritenta, sarai più fortunato...

Io rappresento il fallimento di ogni studio di marketing: tutte quelle menate sull'attirare l'attenzione, sui colori, sulle disposizioni fighe con me non funzionano; persino la psicologia inversa risulta fallimentare. Se è no, è no. E non c'è verso di farmi bramare qualcosa.
Non sono il tipo di persona a caccia di novità, anzi, appartengo decisamente a quella categoria di persone che mal si abituano alle novità, anche quando possono apportare un effettivo miglioramento alla mia vita, anche quando io stessa mi impongo determinati cambiamenti.

Partiamo dal principio e andiamo con ordine: mia madre avrebbe dovuto capire subito che il mio modus operandi sarebbe stato questo vita natural durante.

Era il 16 marzo del 1984 quando, dopo cena, ma diciamo anche in seconda serata inoltrata (erano le 23:30, altro segno peculiare, sono una nottambula), mia madre avverte che "il momento" era arrivato.
La puerpera viene portata all'ospedale, per la primigenia si opta ovviamente per il parto naturale...
Io sembravo anche piuttosto d'accordo, quando, all'improvviso mi rendo conto che forse non avrei ottenuto enormi e tangibili miglioramenti una volta uscita da là.
Dopo una nottata di doglie... Basta, ci ripenso, non voglio uscire!
Mi rigiro e al grido di "O vagina o morte" tento di suicidarmi. Il ginecologo non era d'accordo, mia madre nemmeno, optano per il cesareo.
Da quel 17 marzo in poi (perché io oltre ad essere una di quelle poco avvezze ai cambiamenti e una nottambula, sono anche una testarda che segue i suoi tempi) è stata una dura lotta verso il mantenimento del mio status (quale fosse poi, non si sa).
Passo l'infanzia evitando il più possibile i contatti ravvicinati con alcuni tipi di parenti adducendo scuse come "non posso darti un bacino, li ho finiti" oppure mangiando solo pastina in bianco (salvo poi spazzolarmi intere frittate di funghi o piatti di triglie fritte). Le sottilette dovevano essere solo Kraft, i formaggini solo Mio, il Philadelphia solo quello originale. Pena: lo sciopero della fame.

Settembre 1989. Dopo aver trascorso gli anni dedicati alla scuola primaria in quel di Gioia Tauro, ridente paesino della costa calabra, la famigliola decide di tornare in Sicilia. Urge la scelta della scuola elementare. Pongo un unico veto: le suore devono essere vestite di marrone come la mia maestra dell'asilo.
Certo perché abituarmi a delle suore vestite di nero, di blu o di grigio sarebbe stato davvero troppo. Non solo mi fai trasferire, devo anche sopportare un cambiamento cromatico. Sì, davvero troppo.
[per dovere di cronaca mi preme dirvi che le suore erano vestite di nero e che dopo due anni ho dovuto cambiare nuovamente scuola...] 

Estate 1993. Dopo aver deciso, durante l'inverno, che era davvero ora di smetterla di nuotare coi braccioli (che poi erano come la famosa piuma di Dumbo, si sgonfiavano mentre mi trovavo in acqua, quindi in pratica nuotavo anche senza) e di iscrivermi in piscina. Dopo aver preso due brevetti e rifiutato l'invito degli allenatori con un "sono venuta qui solo per imparare a nuotare, non voglio fare gare". Dopo tutto questo, decreto che è il momento adatto per comprare degli occhialini da nuoto, per permettermi così di poter godere appieno delle bellezze del mare. Tronfia come un tacchino li indosso e mi tuffo, guardo sott'acqua. È troppo quello che sto vedendo! Davvero troppo! Esco dall'acqua e li tolgo, sconfitta dalla mia incapacità di adattamento.
[sempre per dovere di cronaca mi sono incaponita e imposta di abituarmi poco a poco... ovviamente ho vinto io]

19 marzo 1997. Avendo trascorso la fine dell'infanzia e preadolescenza come "una dei maschi" e avendo osservato cadere le mie compagne di classe, una dopo l'altra, sotto il giogo dell'arrivo del ciclo mestruale, sapevo che prima o poi sarebbe successo anche a me e che la cosa non mi avrebbe resa felice perché mi avrebbe potuto togliere il blasone "una dei maschi"; quella sera, quella maledetta sera, all'alba dei miei 13 anni, la mia vita come l'avevo conosciuta fino a quel momento ha subìto un cambiamento di quelli repentini e incontrollabili. Almeno 3 giorni al mese posso smetterla di essere "una dei maschi" e far parte, mio malgrado, della categoria delle "femmine" (non donne, proprio femmine). Ancora oggi, dopo 15 anni, non riesco ad accettare né la crescita di peluria né questo fio (de na mignotta) da pagare, mensilmente.

Primavera 2001. Da qualche anno a questa parte ho l'abitudine di soffrire della sindrome meglio conosciuta come "armadio di Paperino". Vuoi perché il 99% dei miei vestiti è di colore nero, vuoi per pigrizia, vuoi per scarsa propensione alla tipicamente femminile voglia di abbinare fogge e colori, di solito se mi trovo bene con un determinato capo di vestiario tendo a comprare sempre quello (nel senso che vado nel negozio e chiedo quel modello di jeans, quel colore, quella taglia e nemmeno lo provo, tanto per ristabilire un ordine nel cosmo dove le femmine perdono tempo provando qualsiasi cosa trovino nei negozi, comprese le targhette degli estintori). Ebbene, al liceo avevo questo paio di jeans, i quali dopo un po' iniziano a sgualcirsi nell'interno coscia e nell'orlo inferiore (calpestati dagli anfibi - se ve lo state chiedendo: no, non li volevo accorciare). Comprare altri jeans? NO! Piuttosto vado in giro mostrando centimetri di pelle! Quando il buco si è fatto davvero troppo grande allora ho preso le tasche posteriori e le ho usate come toppe. Intanto si erano create piccole fratture nel tessuto, all'altezza del ginocchio. Allarga oggi, allarga domani, un pomeriggio mi chino per togliere la catena al motorino e STRAAAAAAAAAAAAAP, uno squarcio da metà coscia a metà stinco. Una, due, tre, mille spille da balia finché non sono andata a comprarne un nuovo paio.

Per oggi mi fermo qui con le mirabolanti avventure della vostra sociopatica, misogina e misantropa preferita. È ora di cucinare *rullo di topinambur*.

Caprese al cioccolato bianco
Ingredienti:
- 200 grammi di cioccolato bianco
- 200 grammi di mandorle
- 200 grammi di zucchero
- 5 uova
- 1 bustina di lievito
- 150 grammi di burro
- scorza di 3 limoni
- succo di un limone
- 1 bicchierino di limoncello o crema di limoncello

Nel mixer frullate le mandorle, il cioccolato bianco e lo zucchero (a meno che non vogliate usare la farina di mandorle, e io ve la consiglio perché così evitate che le mandorle producano olio, in tal caso usate zucchero a velo al posto dello zucchero normale, in maniera tale da assorbirlo).

Accendete il forno a 180° gradi.
Rompete le uova e unitevi il lievito e il burro (non è necessario fondere il burro, il movimento delle fruste farà il suo effetto).
Adesso tocca alle mandorle e al cioccolato, alla scorza dei limoni, al succo e al bicchiere di liquore. 

Versate il composto in uno stampo foderato di carta forno e infornate per 50 minuti, non preoccupatevi se diventa piuttosto scura, è normale.

Dopo averla sfornata, aspettate che si raffreddi per bene prima di sformarla, è piuttosto delicata. Cospargetela di zucchero a velo e servite.

Piccolo accorgimento: provate a 160° per 40 minuti, magari il fondo non si cuoce al limite col risultare bruciacchiato.


2 commenti:

  1. ahahahahahaha sto morendo :D "le mirabolanti avventure della vostra sociopatica, misogina e misantropa preferita" meritano un seguito! e una rubrica apposita :P

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  2. dici? :D
    intanto adesso apro la pagina su FB, così ci spammiamo le cose a vicenda :D

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